Catino Absidale

Entrando nella Cattedrale di S. Maria Assunta a Spoleto lo sguardo del pellegrino non può non andare al grandioso affresco di Fra’ Filippo Lippi che occupa tutta la parte della tribuna dell’altare maggiore. Il dipinto fu realizzato tra il 1467 e il 1469 e “racconta” la devozione alla Madre del Signore tra Vangelo, narrazione popolare e affermazioni teologiche.

Al centro e in alto: La “Dormitio Virginis” e l’Incoronazione di Maria

Al centro è raffigurata la “Dormitio Virginis”, la dormizione di Maria, che è il nome con cui si designa nella Chiesa orientale il “transito”, la morte di Maria. Nell’arte bizantina è ricorrente questa immagine nella quale si raffigura la morte di Maria, alla presenza degli apostoli. La Vergine è in genere rappresentata sul letto di morte, circondata dagli apostoli, mentre Cristo stringe fra le sue braccia l’anima di Lei raffigurata come un bambino in fasce. Due o più angeli discendono dall’alto ad accoglierla.

Nella Cattedrale di Spoleto il Lippi attualizza questa tradizione dipingendo i personaggi, tra cui se stesso e il figlio, in abiti quattrocenteschi e raffigurando un grandioso sfondo tipicamente umbro. Chiunque lo guardi riconoscerà la Valnerina nelle rocce, nei dirupi, nelle strade e nei borghi del dipinto.

Sopra l’affresco, la scena “cosmica” dell’”Incoronazione di Maria” che implicitamente vuole testimoniare la fede della Chiesa nel mistero dell’”Assunzione”. Il Padre Eterno incorona Maria al centro di una raffigurazione che riporta gli elementi della creazione incorniciati dai colori dell’arcobaleno, il sole e la luna, cielo, terra e acque… Alla scena regale assistono i grandi uomini e donne che hanno costruito con le loro vite la storia della salvezza, e il pittore ne annota anche, diligentemente, il nome: Adamo, Eva, Giovanni Battista, Bersabea, Michea, Elia …

Sono immagini del “sensum fidei”, della percezione che il popolo cristiano ha della storia della salvezza e della presenza fondamentale della figura della Vergine Maria in questa storia. Noi veniamo da secoli di “dottrina” fatta di affermazioni, di dogmi, di elaborazioni teologiche ma è necessario considerare sempre questo procedere direi “popolare” delle parole che si fanno immagini. È come se leggendo i Vangeli dell’Annunciazione e dell’Incarnazione si arrivi a “scrivere” di Maria un racconto che non troviamo nel Vangelo. La dormizione della Vergine, la sua incoronazione a Regina del Cielo, l’Assunzione in anima e corpo è la continuazione di quei Vangeli, una conseguenza della sua grandezza. I dogmi vengono dopo, ma sono la traduzione del sentire del popolo di Dio.

Se Dio ha voluto farsi carne attraversando la logica umana della nascita e della morte, se Maria è tanto grande perché «l’umana natura nobilitasti sì che il suo fattore non disdegnò di farsi sua creatura» (Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto 33) allora anche la sua vita non poteva perdersi nell’ombra della morte e doveva seguire la sorte gloriosa del suo Figlio, anima e corpo. E questo, in fondo, è il senso profondo dell’Assunzione al cielo di Maria a indicare la strada a tutti i viventi: «…è la festa dell’unità dell’uomo, del destino glorioso dei corpi uguale al destino dell’anima … ogni uomo obbediente e fedele canti alla sua intera salvezza in anima e corpo» (David Maria Turoldo).

In basso, a sinistra: l’Annunciazione dell’Angelo a Maria

«Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La Vergine si chiamava Maria. Entrando da lei disse: “Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te …”» (Lc 1,26-38).

Comincia così l’antica storia che da secoli raccontiamo, con questo saluto che generazioni e generazioni di cristiani hanno ripetuto. L’affresco del Lippi fissa questa scena in una cornice nobile e serena, secondo i canoni artistici del suo tempo. Lui se l’immagina così e anche questo ci insegna la necessità per ogni credente e in ogni tempo di “raffigurare”, fissare questo “sì” che accoglie, esattamente “là dove ci si trova”.

Al mattino, a mezzogiorno e a sera, per tre volte al giorno, suonano le campane. È l’Ave Maria. Il saluto dell’angelo scandisce l’inizio, il centro e la fine del giorno. L’Angelus e l’Ave Maria fanno dell’annunciazione il racconto della Scrittura più noto e ripetuto. La vita cristiana porta nel suo cuore e ha come principio e come fine l’incarnazione del Verbo. Tutta centrata su questo mistero, è una continua attualizzazione “oggi” del “sì” che ha attratto Dio nel mondo.

Maria è figura di ogni credente e della Chiesa intera. Ciò che è avvenuto a lei deve accadere a ciascuno e a tutti. Il “sì” dell’uomo che accoglie e genera il Verbo, da cui tutto ha principio, è il fine stesso della creazione. La scena precedente si svolgeva nel tempio; ora nella “casa”, perché Dio ha finalmente trovato la casa di cui il tempio è figura.

Il mistero può essere colto sotto vari aspetti, secondo che si consideri Maria come tipo del credente, apice del mondo, resto d’Israele, realizzazione della promessa ecc… Il modo più adeguato è quello di collocarsi, con un colpo d’ala, dalla parte stessa di Dio. È l’incontro che lui ha cercato da tutta l’eternità, il momento in vista del quale iniziò il tempo, coronamento del suo sogno d’amore, premio del suo lavoro, ricompensa della sua fatica. Finalmente dalle profondità della sua creazione che si è allontana da lui, s’innalza un “sì” capace di attirarlo. E lui viene, si unisce e si compromette per sempre.

Quale fu la gioia di Dio nel poter dire a Maria: “Gioisci”. Lo sposo finalmente, dopo tanti drammi, trova la sposa del suo cuore. Finalmente ha termine la sua sofferenza: è abbracciato da chi ama. La sua offerta trova mani che l’accolgono e le grandi braccia del mondo comprendono, concepiscono e stringono ciò senza cui l’uomo non è uomo. L’Amore è amato: ha trovato una casa dove abitare e la casa dell’uomo non è più deserta. L’incarnazione ha un carattere “passionale”: rivela la passione di Dio. È l’inizio delle nozze tra lui e l’umanità, il principio di un amore che sarà più forte della morte (Ct 8, 6).

Il racconto inizia con l’angelo “mandato” (=apostolo) e termina con l’angelo che parte. L’angelo è la presenza di Dio nella sua parola annunciata. La nostra fede nella sua Parola accoglie lui stesso e ci unisce a lui: è il natale di Dio sulla terra e dell’uomo nei cieli. La Parola si fa carne in noi, senza lasciarci più e l’angelo può andare ad annunciarla ad altri, fino a quando il mistero compiutosi in Maria sarà compiuto tra tutti gli uomini. La salvezza di ogni uomo è diventare come Maria: dire sì alla proposta d’amore di Dio, dare carne nel suo corpo al suo Verbo eterno, generare nel mondo il Figlio.

Questo brano, posto all’inizio del Vangelo, ne è la chiave di lettura: ogni racconto che segue mi propone, come a Maria, di “gioire”, mi dice un aspetto del mio nome (“pieno-di-grazia”) e di quello di Dio (“il Signore-con-te”), e mi offre il verbo che attende il mio “sì” per farsi carne in me, nella forza dello Spirito (Sivano Fausti, “Una comunità legge il Vangelo di Luca”, EDB, 1994).

In basso, a destra: la Natività

«Ora avvenne in quei giorni: uscì da Cesare Augusto un decreto di iscrivere tutta l’ecumene. Quell’iscrizione prima avvenne mentre Quirino governava la Siria. E andavano tutti per iscriversi, ciascuno nella propria città…» (Lc 2, 1-7).

il Lippi non si sottrae al grande racconto che riempie da secoli le liturgie delle notti di Natale di tutti i credenti della storia, tratto dall’Evangelo di Luca. Nella Cattedrale di Spoleto ci sono tutti gli elementi “classici” del racconto: Maria, Giuseppe, il Bambino, la mangiatoia, gli angeli e i pastori… I muri diroccati raccontano anche della presenza familiare dei terremoti in Umbria.

Il racconto, da sempre contrappone il racconto “imperiale” della storia (con i particolari di imperatori, governatori e tirannelli locali) alla manifestazione della divinità nella piccolezza e pone l’ascoltatore del racconto nella condizione di percepire come il Salvatore sia decisamente da “quest’altra” parte della storia.

«Si sono manifestati la bontà di Dio, Salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tt 3, 4). In questa scena siamo chiamati a contemplare la filantropia di Dio, fatto per noi carne in suo Figlio. La scena di un Dio che si è fatto piccolo e indifeso, per essere accolto dalle nostre mani, è un preludio già della croce. La sua nascita rivela un carattere “passionale”; manifesta la sua passione per l’uomo, la sua simpatia estrema per lui, che l’ha spinto a condividere la sua condizione. Il problema della fede cristiana è accogliere la carne di Dio che si è fatto solidale con la nostra debolezza: «Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (1 Gv 4, 2). Essa ci rivela quel Dio che nessuno mai ha visto (Cf Gv 1, 18). La scena, compimento dell’annunciazione, è costruita come un contrappunto tra la potenza umana che si auto esalta, si dilata e si consuma in un censimento mondiale, il primo della storia, e l’impotenza di Dio che si umilia, si restringe e si concentra in un bambino.

Se il Figlio di Dio fosse venuto con potenza, nel fulgore della sua gloria, certamente non si sarebbe esposto al rifiuto. Tutti l’avremmo accolto e necessariamente. Ma non sarebbe stato Dio, bensì un idolo.

Sant’Ignazio pone il criterio discriminante della fede dei due vessilli: il vessillo del nostro re è “povertà, umiliazione e umiltà” (Cf, Magnificat). Quello della “ricchezza, vanagloria e superbia” è di satana. Questa prima presentazione che Luca fa di Gesù, e che ha colpito tanto S. Francesco, è normativa per la nostra fede: è la porta d’ingresso per entrare nella casa dove lui abita e poterlo conoscere.

Certamente un Dio piccolo si espone al rifiuto. È la vulnerabilità dell’amore, che non può non rispettare la libertà. Ma a quanti lo accolgono così com’è, dà il «potere di diventare figli di Dio» (Gv 1, 12).

Il centro dei primi due capitoli (di Luca) è la conoscenza “tattile” di Dio che ha Maria nel generare, fasciare e deporre il suo figlio primogenito nella mangiatoia. La scena ci è data da contemplare ripetutamente per tre volte di fila, con le stesse parole: il fatto storico, unico, accaduto duemila anni fa, è prima narrato, (vv. 6-7), poi annunciato come “segno” (v. 12) da leggere che dà significato a tutta la storia (vv. 11. 12), e infine verificato dai pastori (v. 16). Attraverso il racconto che per prima Maria ha fatto e che Luca, – pastore diventato a sua volta annunciatore – ha trasmesso a noi, anche noi siamo chiamati a contemplare e toccare con lei lo stesso Verbo della vita.

Così, come i primi pastori, diventiamo a nostra volta annunciatori della Parola: «Fu partorito per voi oggi un salvatore che è il Cristo Signore». Lo stesso annuncio, di bocca in bocca, attraverso i pastori diventati evangelisti, trasmette a noi il compimento della promessa di Dio. Nell’obbedienza di fede a questo annuncio, veniamo condotti anche noi alla salvezza. L’oggi della nascita del Salvatore si realizza ovunque è annunciato e creduto, come presso i pastori che si mettono in cammino per andarlo a vedere.

Dopo le parole dell’angelo, si apre il cielo e gli uomini possono assistere alla liturgia celeste che si svolge sopra questo bambino. A questa liturgia celeste, dischiusa dall’annuncio che ne dà l’interpretazione, corrisponde una liturgia terrestre, di povera gente obbediente alla Parole che corre a vedere un povero bambino, dal quale crede “ciò che il Signore ha notificato (v. 15). Essi, dopo aver sperimentato ciò che è stato loro detto (v. 17-20), a loro volta lo annunciano (vv. 17. 18).

In questi pastori, primi ascoltatori che a loro volta si fanno annunciatori, si profila la Chiesa. Essa nasce dall’annuncio, ne verifica l’oggi di salvezza e la ritrasmette agli altri con l’annunzio. È una Chiesa di poveri e ultimi, come l’annunciato stesso. In forza della fede, essa riconosce, annuncia, glorifica e loda Dio che si è rivelato nell’impotenza di Gesù (Cf Silvano Fausti, op. cit.).

Don Gianfranco Formenton, Parroco di S. Martino in Trignano e di Sant’Angelo in Mercole

Catino Absidale

Filippo Lippi

Nacque a Firenze nel 1406 circa. Di famiglia povera, entrò nel convento del Carmine a Firenze, dove pronunciò i voti nel 1421; nella chiesa del convento fiorentino osservò all’opera Masaccio e Masolino da Panicale, intenti, tra il 1424 e il 1428 circa, alla decorazione della cappella Brancacci.

Nel 1428 si trasferì nel monastero carmelitano di Siena, dove rimase per circa un anno con la carica di sottopriore, avendo così l’opportunità di conoscere in profondità le testimonianze dell’arte locale sia pittorica, sia scultorea.

Al principio del 1456 fu nominato cappellano del convento di Santa Margherita a Prato, dove conobbe Lucrezia Buti, di cui si innamorò e che convinse a fuggire con lui. Dalla loro unione illegittima nel 1457 nacque segretamente a Prato il figlio Filippino. Per alcuni particolari architettonici il Lippi si ispirò ad antichi edifici di Spoleto: il fregio in alto a palmette nell’Annunciazione deriva da quello del tempio romano presso S. Ansano; i capitelli del portichetto ricalcano gli stessi della Basilica di S. Salvatore. 

L’ideazione del ciclo appartiene al Lippi, ma nell’esecuzione egli si avvalse di alcuni collaboratori, dei quali il più importante fu don Diamante. Nella scena della Dormitio della Vergine, nel gruppo di astanti a destra possiamo riconoscere lo stesso frà Filippo Lippi e il figlio Filippino. Questa è l’ultima opera del celebre pittore fiorentino, che morì a Spoleto l’8 (o il 10) ottobre 1469.

Nella Cattedrale, transetto destro, c’è il monumento sepolcrale del Lippi, dove nel riquadro centrale è contenuto l’epitaffio commemorativo dettato da Agnolo Poliziano: Io filippo gloria della pittura sono sepolto qui: a nessuno è ignota la mirabile grazia della mia mano. Con le mie dita d’artista ho dato vita ad apparenze e a lungo ingannato gli animi che speravano di udirne la voce. La stessa Natura, fatta manifesta nelle mie figure, si è stupita ed ha ammesso che io eguaglio le sue arti. In un sepolcro di marmo Lorenzo de’ Medici mi ha dato asilo; prima ero coperto di umile polvere.

825° anniversario del Duomo di Spoleto

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