Le chiese medievali dell’Italia centrale conservano quasi tutte un crocifisso, scultura o dipinto su legno, posto solitamente al centro dell’abside centrale, punto di convergenza degli sguardi di tutti i fedeli entrati nella chiesa. Il Cristo in croce, il Cristo Kýrios, Signore crocifisso ma vivo e risorto, regna e sta in mezzo all’assemblea. Ma quando si entra nella Cattedrale di Spoleto la visione del crocifisso attira subito e cattura lo sguardo, si imprime negli occhi e nel cuore e ferisce con la sua straordinaria bellezza e con la sua eloquenza.
Il Cristo in croce è il Cristo della visione catturata dal Vangelo di Giovanni, l’altro Vangelo, che sa leggere con la profondità degli occhi della fede il mistero della croce. Nella passione di Gesù il Quarto Vangelo legge la gloria di Gesù, nel supplizio della croce l’esaltazione del Figlio dell’Uomo, nella sua morte l’effusione del suo Spirito su tutto l’universo. I segni della sofferenza sono presenti ma trasfigurati, non più doloranti ma segni, ferite diventate feritoie attraverso le quali contemplare il suo amore donato fino all’estremo. La croce appare non supplizio ma trono dal quale Cristo regna, altare su cui Cristo è immolato come Agnello pasquale, ma che appare «ritto, in piedi, come sgozzato» (Ap 5, 6). Guardiamo il Cristo in questa posizione così eretta, kyriale, vivo, con il capo eretto e gli occhi non solo aperti, ma grandi, penetranti, che scrutano e giudicano il mondo con mitezza e compassione.
Tiene le braccia distese sulla croce in un atteggiamento di sottomissione alla volontà del Padre e alla vocazione ricevuta, braccia aperte in attesa di abbracciare chi va a lui e da lui si sente attirato! Non aveva forse detto prima della passione: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32)? E questo si compie anche davanti al crocifisso di Spoleto.
Non dovremmo dire che è un Christus triumphans ma un Christus gloriosus, un Cristo che possiede la gloria dell’aver amato fino all’estremo questa umanità nella quale ha voluto essere un fratello (cf. Eb 2, 11-18).
Nel Quarto Vangelo Gesù crocifisso è l’apice della rivelazione e della gloria. Una scritta voluta da Pilato proclama nelle tre lingue dell’ecumene – ebraico, latino e greco – la vera identità di Gesù: «Gesù il Nazareno, il re dei giudei» (Gv 19, 19). E se Pilato con questa scritta intendeva deridere Gesù, oggettivamente vi è qui la proclamazione solenne nelle lingue e nelle diverse culture del mondo di chi lui è: il Messia promesso a Israele, il Salvatore. Proprio questo fa infuriare i sacerdoti capi del tempio.
Sulla croce Gesù è nudo perché le sue vesti sono state prese dai soldati che se le sono divise tirando poi a sorte a chi toccava la tunica. Ma nella sua nudità gloriosa Gesù vede le sue vesti come segni della sua vita, ormai diventate dono per le genti pagane… Nudità di chi si è spogliato di tutti i suoi attributi divini fino a diventare schiavo, ma rivelazione di chi si è umiliato fino a essere uomo, fragile e mortale come noi suoi fratelli!
Ed ecco allora accanto al crocifisso la madre, in pianto, la madre che “sta nel suo dolore silenziosa”, e accoglie di essere madre del discepolo amato da Gesù che sta alla sinistra: «Donna, ecco tuo figlio… Ecco tua madre» (cf. Gv 19, 25-27).
Perché la Chiesa nasce sotto la croce e il sangue di Cristo dal suo petto colpito dalla lancia scende sulla Chiesa mentre il discepolo amato, come Giovanni il Battista, con il dito indica l’Agnello di Dio che sulla croce toglie i peccati del mondo.
Questo è il mistero grande della fede! Chi lo osserva comprende ciò che deve credere come verità, via, vita per lui e per l’umanità.
Completa la teologia di questo crocifisso il Cristo dipinto nella cimasa: è Gesù che sale al cielo attorniato da quattro angeli, che chiudono la mandorla del mistero. Ma non dimentichiamo che come i discepoli l’hanno visto salire al cielo, così lo vedremo venire dal cielo nella sua gloriosa venuta che ancora attendiamo.
Nel crocifisso di Spoleto l’orizzonte escatologico non è assente! E così nel suppedaneo contempliamo il sangue di Cristo, il sangue della nuova ed eterna alleanza, il sangue della remissione dei peccati, scendere dai piedi bucati dai chiodi su un teschio chiuso in una piccola caverna. È il teschio di Adamo, del terrestre, dell’umanità, che secondo le tradizioni rabbiniche ebraiche e poi cristiane era stato seppellito su un monte, il monte Moria, che sarà il monte del sacrificio di Abramo, il monte del tempio di Gerusalemme. Ecco dunque il sangue dell’ultimo e definitivo sacrificio su tutta l’umanità, sangue che dà la salvezza perché purifica, perdona, fa risorgere da morte.
La croce della Cattedrale di Spoleto dipinta da Alberto Sotio, realizzata nel 1187 per la piccola chiesa romanica dei Santi Giovanni e Paolo, ma poi trasferita in Duomo nel 1877, non è solo un’opera d’arte straordinaria per la sua bellezza, ma una vera “scuola di fede” per tutti quelli che la contemplano. Perché quando Cristo viene contemplato la sua figura ha il potere di trasfigurare chi la contempla nella sua stessa immagine e lo fa diventare somigliante a Cristo. Contemplare e pregare il crocifisso della Cattedrale di Spoleto è molto più di una semplice devozione: è vivere una lectio divina attraverso una straordinaria immagine, forgiata dal Vangelo.
Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose
Alberto Sotio
Pittore attivo a Spoleto nella seconda metà del sec. XII. La sua croce (1187) è uno dei più antichi crocifissi dipinti su tavola sagomata ed unica opera riferibile con certezza a questo antico, eccellente maestro. Lo stile del Sotio ha molte affinità con quello bizantino dell’età tardo-comnena diffuso in Italia specialmente nelle regioni meridionali. Alberto Sotio (il cui nome esatto è tuttavia incerto) può considerarsi la figura centrale della scuola pittorica spoletina dei sec. XII-XIII, assai ricca specie di croci dipinte.
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la storia
1198: la Cattedrale viene consacrata da
Papa Innocenzo III.