Nelle culture antiche e presenti, il tempio è considerato quel luogo fisico capace di materializzare nella dimensione sensibile la residenza metafisica di Dio, palesando agli uomini il senso del divino che altrimenti resterebbe fumoso e inaccessibile. Il luogo sacro così̀ inteso rientra, secondo la scienza delle religioni, nella categoria del cosiddetto axis mundi (o «centro dell’universo»), un luogo dove i livelli cosmici si incontrano, uno spazio sacro che si costituisce in seguito ad una rottura di quota che avvera il contatto con le realtà̀ ultramondane.
Le ziqqurat babilonesi sono un esempio del tentativo antropologico di concepire i templi degli dei come axis mundi, costruzioni a forma di torre che si pongono a metà strada tra il cielo e la terra. Ne abbiamo un esempio famoso anche nella Bibbia, laddove si racconta dell’episodio della Torre di Babele (Gen 11, 1-9). Riguardo al tempio babilonese, si può sostenere che esso sia concepito come la casa dove un dio vive, tratta i suoi affari, è servito dal suo personale e da dove, in cambio del proprio benessere, assicura felicità e prosperità̀ alla città̀ e ai suoi abitanti.
La rivelazione biblica offre ampie testimonianze del ruolo rivestito dal tempio nella fede ebraica e cristiana in ambito storico, sociale, simbolico e teologico, con delle accezioni tutte proprie. La fede di Israele si è mostrata infatti agli antipodi rispetto alle tradizioni pagane: non è l’uomo a trovare casa alla divinità, ma è Dio che dopo aver creato l’uomo con amore operoso lo depone in Eden per conservarlo in uno spazio sacro, in un recinto che dal lemma ebraico gan assume il senso di un’area «protetta da un muro o da una siepe», un giardino donatogli «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 15).
I verbi ebraici coltivare e custodire (‘abad e šamar) possono essere resi anche con «servire, adorare» e «proteggere». L’inferenza logica è che in origine il Creatore avrebbe voluto che Adamo ed Eva vivessero felici in un giardino-santuario alle prese con responsabilità sacerdotali e in sua compagnia, inclusa la coltivazione e il mantenimento dello spazio cui furono destinati. Non è un caso che questa medesima terminologia sacra, utilizzata per la prima volta in Genesi, compaia più avanti nella Bibbia in riferimento al tabernacolo e al tempio israeliti. Sin dal principio Dio era con Adamo ed Eva e sovente passeggiava nel giardino-santuario alla brezza del giorno (Gen 3, 8), un’azione abituale espressa nella forma ebraica al participio. È rivelatorio dell’essenza di Dio che lo stesso verbo che descrive il suo passeggiare in Eden sia impiegato anche in seguito per descrivere il camminare di Dio affianco al popolo nel deserto, al di fuori di uno spazio sacro (Lv 26, 12; Dt 23, 15).
Adamo ed Eva furono esclusi dal giardino-santuario per aver ceduto all’influenza del serpente che riuscì a strapparli a Dio, ma per ristabilire le benedizioni originali della creazione Jahvé suscitò Noè e i patriarchi.
I patriarchi e i santuari minori
Nel periodo biblico patriarcale, quello di Abramo, Isacco e Giacobbe, Israele non conosceva i templi (come già il vicino oriente pagano), ma frequentava dei «luoghi religiosi» considerati sacri a seguito di manifestazioni volontarie di Dio (teofanie) che impregnavano il sito di santità e gli conferivano la dignità di santuario.
Così nacquero i santuari di Mamre al tempo di Abramo (Gen 18), di Bersabea al tempo di Isacco (Gen 26) e di Sichem al tempo di Giacobbe (Gen 33). Teologicamente prezioso è il racconto di Genesi che spiega le origini del celebre santuario di Betel (28, 10-22) da cui si legge che Giacobbe trascorse una notte all’aperto in un luogo chiamato Luz (mandorlo) e sognò una scala maestosa come quella di un tempio che dalla terra toccava il cielo, percorsa da un gran numero di angeli e risonante la poderosa voce di Dio. Giacobbe trasalì ed esclamò: «quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo». A seguito della teofania, Giacobbe cambiò il nome da Luz in Bet-El (casa di Dio), espressione antropomorfa che esprime il fascino del suo atto di fede. In questo modo il racconto eziologico sulle origini di quel santuario fonda la devozione di Israele per Betel, sancendone l’autorevolezza mediante una certificazione di garanzia espressa dalla bocca di un patriarca. Ancora, Giacobbe si alzò presto la mattina seguente, prese la pietra che aveva usato per guanciale, la mise in piedi come una colonna e la consacrò, versandoci sopra dell’olio d’oliva (v. 18).
Questi santuari minori che affollano il periodo premonarchico preparano Israele alla costruzione del tempio di Gerusalemme, il cui precursore assoluto fu però il tabernacolo, utilizzato dal popolo nelle sue peregrinazioni nel deserto fino alla conquista di Gerusalemme.
Il tabernacolo
Dopo la fuga di Israele dall’Egitto, il libro dell’Esodo riporta il racconto della grande teofania sul Sinai e descrive Mosè immerso in avvenimenti miracolosi con tuoni, lampi, nubi e un fortissimo suono di tromba. La cronaca è agghiacciante: «tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto» (Es 19, 16-18). Il valore sconvolgente dell’esperienza di Dio, raccontata nella grande teofania come mysterium tremendum et fascinans, determina nel popolo la coscienza della propria finitezza e l’attrazione verso il miracolo, che però esige il superamento del fatto strabiliante in sé per attingere piuttosto la causa da cui esso ha origine, vale a dire Dio stesso, che sostenendo e supportando i fenomeni rivela di abitare non soltanto nelle sfere eccelse ma ovunque, presso il popolo. D’altronde Dio si era presentato a Mosé dicendo di sé «io sono colui che è», che è presente, che sta con te.
L’esperienza nuova che Israele vive al Sinai riguardo a Dio produce una teologia di prossimità e di vicinanza che comporta di lì in avanti l’utilizzo di un tabernacolo mobile, un vero e proprio santuario portatile grazie al quale Dio evidenzia di dimorare in mezzo al popolo peregrinante nel deserto per accompagnarlo e guidarlo in tutte le sue vie (Es 26-27). Non è più il pio Israelita a farsi pellegrino verso Dio in un santuario come Betel, ma è Dio che si fa pellegrino presso gli uomini, risiedendo in una tenda. Il tabernacolo è chiamato anche tenda della testimonianza, poiché da esso Dio enuncia i suoi oracoli (Es 38, 21); è la tenda del convegno, poiché lì Dio si incontra con Mosé faccia a faccia (Es 33, 11); è la tenda di Dio tra le tende degli uomini, un santuario smontabile descritto nel dettaglio in sette capitoli del libro dell’Esodo (Es 25-31) e composto da una pianta rettangolare, suddivisa in un cortile esterno e due spazi interni.
Nel cortile esterno si compivano i sacrifici animali e gli olocausti; da questa area si accedeva alla prima stanza interna, chiamata il «Luogo Santo», nel quale potevano entrare solo i sacerdoti. Esso conteneva la tavola dei pani perpetui offerti a Dio, il candelabro e l’altare dell’incenso. La seconda delle camere era chiamata il «Santo dei Santi», uno spazio cubico alto, largo e profondo cinque metri che conteneva l’Arca dell’Alleanza, testimone preziosa di un Dio che si è impegnato a portare a compimento ciò che ha promesso al suo popolo. Soltanto al sommo sacerdote era concesso di entrare in questa zona mistica non più di una volta all’anno, in occasione del giorno solenne dell’Espiazione (Yom Kippur). Nei testi sacri il Signore ordina l’elaborazione di un olio profumato con cui ungere la tenda e tutto ciò che essa conteneva, poiché gli arredi potevano essere utilizzati soltanto per il culto e non per altro (Es 30).
Il santuario mobile così descritto assumeva il ruolo di cosmogramma, delineando un modello di universo da proporre ai credenti. In questo schema cosmico, il Santo dei Santi simboleggiava la dimensione celeste invisibile, il Luogo Santo rappresentava i cieli visibili ed il cortile esterno incarnava il mare e la terra, dove dimorano gli esseri umani. Va notato che anche il Sinai al momento della grande teofania era diviso in tre zone, secondo il medesimo cosmogramma: la prima zona era la cima ardente da cui usciva la voce di Dio e su cui solo Mosè poté accedere (Es 19, 20), la seconda erano le sue pendici coperte dalle nuvole cui poterono accostarsi, in compagnia di Mosè, settanta anziani e i sacerdoti Aronne, Nadab e Abiu (Es 24, 1), e l’ultima era la base del monte che stava al di sotto della nube (Es 24, 4). Il monte Sinai ospitò l’incontro massimo tra Dio e Mosè che però non restò un episodio isolato, grazie al tabernacolo che divenne un Sinai portatile.
Il periodo pretemplare, variamente interpretato e narrato dalle diverse tradizioni bibliche, determina più avanti la decisione profetica di edificare un tempio a Gerusalemme (2Sam 7; 1Cr 17) e durante il regno davidico l’Arca fu traslata nella Città Santa, rimanendo custodita sotto un’apposita tenda (2Sam 6, 17), fino all’inizio del regno salomonico (1Re 2, 28). Solo quando fu ultimato il tempio, l’Arca vi fu definitivamente trasferita dal tabernacolo (1Re 8, 4).
Il tempio di Gerusalemme e il culto spirituale
Dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Re Davide e la costruzione del palazzo regale nel decimo secolo a.C., si pensò di modernizzare il culto edificando anche un tempio (2Sam 7,1-17), ma Dio inizialmente si oppose alla disposizione religiosa per il rischio di idolatria che portava con sé, come già al tempo della torre di Babele: la devozione di Israele non doveva conformarsi ai culti pagani dove i templi esercitano una forma di controllo sulle divinità.
La costruzione del tempio sotto la monarchia di re Salomone fu infine possibile in quanto la fede in Jahvé divenne sufficientemente matura per acquisire elementi utili all’uomo senza tuttavia mortificare Dio, la cui presenza non è circoscrivibile nei cieli e in nessun manufatto (Sal 2, 4; 1Re 8, 27); nel tempio si potrà trovare il Signore nella misura in cui si invocherà il suo nome mediante un culto veritiero, espresso da un cuore fedele.
Edificata sul monte Sion, dove Abramo portò Isacco per il sacrificio (2 Cron 3, 1), la dimora di Jahvé era considerata dai giudei il centro dell’universo (axis mundi), ed il tempio terreno si configurava come la riproduzione tangibile del modello trascendente, copia dell’archetipo celeste. Il culto rimarcava a grandi linee quello del tabernacolo mobile, avendo sempre al centro l’Arca testimone dell’Alleanza.
Partecipando alle vicissitudini del destino nazionale, il tempio conobbe una storia travagliata, alternata tra grandezza e precarietà, come annunciato dai profeti (Ez 10, 4; Is 60, 7-11); subì il saccheggio del re egiziano Shishak, la profanazione del re Manasse e la distruzione del re assiro Nabucodonosor nel 587 a.C.
Nella terra dell’esilio e della sofferenza, il popolo ebraico lontano dal tempio poté recuperare il convincimento della presenza di Dio anzitutto nella vita spirituale prima ancora che in un luogo fisico (Is 66, 2). La visione del profeta Ezechiele (Ez 1-3) concorse a dimostrare che Jahvé non è una squallida divinità locale sfrattata dall’esercito babilonese, ma che anzi ha lasciato il tempio ancor prima dell’occupazione, con lo scopo di spostarsi verso oriente per farsi trovare già lì dal popolo di Israele, aiutandolo a superare la crisi dell’esilio (Ez 10, 18). La fede del popolo fu purificata e l’immagine di Dio risultò più ricca rispetto alle generazioni precedenti.
Tornati dall’esilio, su comando di Zorobabele e di Giosuè sommo sacerdote, gli israeliti ricostruirono il tempio su base ridotta e meno gloriosa, tanto che molti tra i sacerdoti anziani piangevano forte pensando al tempio precedente (Esd 3, 7-14). Arricchito e migliorato tra il III ed il II secolo a.C., nel dicembre del 157 a.C. il re seleucide Antioco IV fece erigere nel secondo tempio un altare pagano, dissacrandolo; quando i maccabei sconfissero i seleucidi fu necessario purificarlo e riconsacrarlo.
Il terzo tempio fu voluto da Erode, re della Giudea, che non essendo ebreo di nascita era inviso al popolo di Israele. Per conquistarsi il favore dei Giudei, lo scaltro Erode superò per grandiosità e splendore il tempio di Salomone. Iniziato nel 19 a.C., alto cinquanta metri, il terzo tempio occupava il 15% della città. Era circondato da un muro di separazione alto un metro e mezzo che lo strappava dallo spazio profano circostante. Accessibile soltanto agli ebrei, si accedeva dapprima al cortile dei gentili e da qui al cortile della preghiera, posto tre metri più in alto grazie a dodici scalini. Più avanti ancora si trovava il cortile dei sacerdoti dal quale si accedeva al Luogo Santo e da ultimo al Santo dei Santi.
L’inizio della fine si colloca nel 66 d.C., quando gli ebrei si ribellarono all’Impero romano trasformando il tempio nella roccaforte della resistenza. Quando i romani terminarono l’assedio nel 70 grazie alla capitolazione di Gerusalemme, del tempio di Erode non rimase che la piattaforma sulla quale si ergeva, essendo stato totalmente distrutto. La profezia di Gesù si era realizzata alla lettera: «Non resterà qui pietra su pietra che non verrà diroccata» (Mt 24, 2).
Dal Vangelo di Luca e dagli Atti degli Apostoli sappiamo che la comunità cristiana, dopo la Pentecoste e fino all’opposizione giudaica20, frequentava ancora il tempio (Lc 24 ,53; At 2, 46; 3,1) e nel suo recinto gli apostoli coglievano ogni occasione per predicare alle folle. Anche Paolo vi tornò̀ a pagare l’offerta per il voto di alcuni nazirei (At 21, 23s. 26-30). Sorprende dunque che la distruzione così rovinosa del tempio di Gerusalemme non sia stata annotata nel Nuovo Testamento, nonostante la stesura di alcuni suoi libri sia successiva al 70. La motivazione va ricercata nella nuova fede cristiana.
Il nuovo tempio
A seguito della demolizione del tempio, i cristiani avevano preso coscienza di costituire essi stessi il nuovo tempio di Dio, spirituale e non più fatto da mani d’uomo. Sull’onda di questa consapevolezza nuova, S. Paolo scrive agli Efesini che «i cristiani sono tempio santo di Dio» (2, 19-22) e similmente S. Pietro dichiara che i cristiani sono le pietre vive impiegate nella costruzione del tempio (1Pt 2, 5). Cristo in persona parlò di sé come la pietra scartata dai costruttori che è divenuta la pietra d’angolo (Mt 21, 42) e sopra quel fondamento la Chiesa è stata edificata dagli Apostoli e da esso riceve coesione e stabilità.
Il passaggio dal vecchio al nuovo tempio fu graduale ma deciso. Gesù riconosceva nel tempio di Gerusalemme la casa del Padre, una «casa di preghiera» (Lc 19, 46), e professava per esso il rispetto più profondo scacciandone i mercanti per purificarlo. In base alla testimonianza dei quattro evangelisti, si calcola che Gesù deve aver visitato il tempio in almeno quattordici occasioni, tra cui la presentazione, lo smarrimento, la tentazione, l’insegnamento, le dispute, la tassa, il giuramento, la purificazione e le predizioni.
Non a caso però l’intero Vangelo di Marco è̀ stato elaborato come il cammino di Gesù̀ verso il tempio che si concluse con uno scontro mortale: raccontando del momento della morte del Messia, Marco sostiene che il velo del santuario si squarciò in due (15,39), facendo corrispondere all’evento sul Calvario (la morte di Cristo) l’effetto sul santuario (l’inutilità sopraggiunta del tempio, non più segno della presenza di Dio tra gli uomini).
Anche nel Vangelo di Giovanni, l’asserzione di Gesù «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» sancisce l’equiparazione tra il tempio di Gerusalemme ed il proprio corpo (Gv 2, 21-22). L’evangelista per di più indica il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio con il verbo «porre la tenda» (Gv 1, 14: «si attendò in mezzo a noi»), alludendo all’antica tenda del deserto quale segno della presenza di Dio tra i suoi.
Un ultimo elemento della sostituzione tra vecchio e nuovo tempio si trova nei versi conclusivi del primo capitolo di Giovanni, dove Gesù risponde a Natanaele e gli dice: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio che salgono e scendono sul Figlio dell’uomo» (Gv 1, 50-51). L’espressione riprende la successione dei verbi del sogno della scala di Giacobbe a Betel (Gen 28), descrivendo lo stesso movimento. Nella letteratura giudaica, un midrash spiega che gli angeli che accompagnavano Giacobbe erano saliti in cielo ad invitare gli altri a scendere per conoscere il patriarca e mentre in Genesi gli angeli convergono su Giacobbe, nel Vangelo di Giovanni il movimento avviene su Gesù, presentando il Figlio dell’uomo in unione permanente col mondo celeste. In altre parole, è̀ Gesù che garantisce d’ora in avanti il contatto con Dio, è̀ lui il «luogo» della relazione con il Padre. Per la fede cristiana l’axis mundi non è più uno spazio fisico, ma è una persona; è Gesù il centro dell’universo dove il divino si incontra con l’umano.
L’edificio di culto e la Cattedrale
Se il nuovo tempio sono i battezzati con a capo Gesù Cristo, l’edificio di culto cristiano è una costruzione che serve a ricordare alle genti il mistero rivoluzionario dell’incarnazione, un nobile fabbricato che rende palpabile la fede e rammenta al mondo che Dio ha voluto stare con noi da sempre, sin dai tempi dell’Eden. Una chiesa viene eretta per propiziare l’incontro del popolo cristiano con il Dio che cammina con l’uomo e che si rende particolarmente presente in ogni assemblea liturgica (Mt 18, 20). Ai sacrifici dell’Antica Alleanza si sostituisce l’unico ed eterno sacrificio di Cristo che celebriamo nell’Eucaristia, fonte e culmine dell’esperienza templare poiché racchiude il mistero della Pasqua di Cristo che squarcia il tempio antico per edificarne uno nuovo (Mc 15 ,39).
La Cattedrale, tempio cristiano tra le case degli uomini, è il segno dell’esistenza in città di una comunità di battezzati credenti (la diocesi) presieduti da un successore degli Apostoli (il Vescovo), che costituiscono il popolo della Nuova Alleanza e che formano insieme con Cristo il tempio santo di Dio, desiderosi di celebrare la fede, di condividere la grazia e di dialogare con gli uomini di questo secolo.
Don Pier Luigi Morlino, Cerimoniere Arcivescovile
Le date significative
della Cattedrale
- Nell’anno 956 nell’area dove sorge la Cattedrale esistevano sia l’episcopio che la chiesa di Santa Maria del Vescovato.
- La presenza di un edificio facente parte del gruppo Cattedrale, che un documento del 1067 chiama tribuna di S. Primiano, rende fondata l’ipotesi che la Cattedrale abbia vissuto una ricostruzione fra l’VIII e il IX secolo, che probabilmente comportò un ampliamento di un edificio preesistente.
- La Cattedrale dell’XI secolo fu eliminata per realizzare un progetto di totale rinnovamento al quale si arrivò nella seconda metà del secolo XII.
- Nel 1155 l’edificio subì danni quando Federico Barbarossa devastò la Città di Spoleto.
- Tra il 1173 e il 1198 fu edificato il campanile.
- Nel 1198 Papa Innocenzo III celebrò la dedicazione della Cattedrale.
- Il 1207, data iscritta nel mosaico della facciata, può considerarsi l’anno di conclusione dei lavori. Onorio III rinnovò la consacrazione della Cattedrale attorno al 1216.
- Nel 1232 Papa Gregorio IX vi canonizzò Antonio di Padova.
- Nel XIII secolo la facciata fu ingrandita ed arricchita di nuovi ornamenti.
- Tra il 1374 e il 1384 il Vescovo Galardo fece decorare l’interno con un ciclo di affreschi che rappresentavano santi spoletini e storie del Vecchio e Nuovo Testamento: questa opera si concluse con la decorazione dell’abside da parte di Fra’ Filippo Lippi.
- Tra il 1491 e 1504 si addossò alla facciata il nuovo portico e a questo si affiancò la cappella eretta da Francesco Eroli.
- Nel 1540 fu eretta la Sacrestia della Cona, oggi Cappella delle reliquie.
- Nel 1549 fu costruito il chiostro delle Canoniche.
- Nel secolo XIV fu edificata la Cappella di Sant’Anna, decorata poi tra la fine del XIV e i primi del XVI secolo.
- La Cappella del Sacramento fu iniziata ai tempi del Vescovo Paolo Sanvitale (1591-1600) e fu decorata alla fine del XVIII secolo.
- La Cappella della Santissima Icone fu costruita nel 1626 e le pareti, raffiguranti le storie della Vergine, furono ornate nel XVII secolo.
- A partire dal 1638 l’interno fu integralmente ricostruito per volere del cardinale Francesco Barberini, ad opera del fiorentino Luigi Arrigucci, coadiuvato da Domenico Castelli.
- L’eccessiva nudità del nuovo interno fu vivacizzata dagli altari di Giuseppe Valadier, realizzati tra il 1785 e il 1792.
- Nel 1820 Papa Pio VII conferì alla Cattedrale il titolo di Basilica metropolitana.
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Un tempo di grazia offerto a tutto
il popolo di Dio.
la storia
1198: la Cattedrale viene consacrata da
Papa Innocenzo III.